Giudizio: l’etichetta che frena il cambiamento!

Capita spesso che alcuni dei genitori che si rivolgono a noi descrivano i figli con frasi come “Dovrebbe essere più autonomo”, “Studia troppo poco”, “Dovrebbe essere più ordinato” o “Potrebbe fare di più”. Allo stesso modo questi stessi genitori o, più in generale, molti di coloro che partecipano al seminario Gioco della Trasformazione, si iscrivono con l’idea di modificare situazioni o relazioni che non vogliono più nella loro vita con affermazioni come “Al lavoro l’ambiente è troppo stressante, dovrei cambiarlo”, “Con lui non funziona più! È
troppo…”, “Mio marito non mi sostiene”, “Vorrei essere più magra”. Cos’hanno in comune questi atteggiamenti? In entrambi i casi la richiesta è di un cambiamento. Un cambiamento però che deve avvenire in qualcun altro o in qualcos’altro. Inoltre, sia nel primo che nel secondo caso, è in atto il maggiore ostacolo a un cambiamento, cioè il giudizio.

Una delle più radicate tendenze dell’uomo e anche una delle più improduttive è sicuramente quella di giudicare.
Il giudizio può essere interpretato anche come la rappresentazione del bisogno di semplificare la realtà che altrimenti sarebbe troppo complessa. In qualche modo quindi, dare un’etichetta ci permette di rendere le cose più comprensibili e facili da capire e da gestire, ma per altri versi quella stessa etichetta limita le nostre possibilità frenando la nostra agentività ed efficacia e fossilizzando tutta la nostra attenzione su ciò che conosciamo già, senza spingerci ad ampliare la nostra visione del mondo. Ci fossilizza nella nostra posizione togliendoci la possibilità di sfruttare del tutto le nostre risorse.
Al giorno d’oggi siamo abituati a giudicare tutto: dalle persone che ci circondano, agli oggetti nostri e degli altri, agli eventi che per qualche ragione non rispondono alle nostre aspettative. Siamo talmente abituati che finiamo per usare lo stesso atteggiamento critico anche sulle persone che amiamo di più, sulla famiglia e su noi stessi. Quello che spesso succede è che con noi stessi siamo ancora più crudeli.
Pensate a quanta energia sprechiamo ogni giorno a chiederci cosa penseranno gli altri di un nostro atteggiamento, a come ci giudicheranno per quello che diremo. E a quante volte agiamo o non agiamo, per la paura del giudizio degli altri!
Quello di cui vi sto parlando succede tutti i giorni: ad esempio penso alle mamme che si incontrano al supermercato e iniziano a fare a gara su quale dei loro figli sia più speciale, oppure in ufficio quando nessuno vuole assumersi delle responsabilità per non rischiare di sbagliare o ancora, nelle relazioni, quando si evita il rischio di esporsi per non essere giudicati, rifiutati o abbandonati.

Il giudizio non è uno stimolo, ma una sentenza!

La paura del giudizio è una delle paure più forti e grandi di ogni essere umano. Già da bambini sentiamo, per esempio, quelli dei genitori, degli insegnanti e dei compagni su di noi e li interiorizziamo, li facciamo nostri.
Certamente un genitore pensa, facendo notare i limiti e le difficoltà al proprio figlio, di aiutarlo e stimolarlo a migliorarsi e a fare qualcosa in più. Allo stesso modo crediamo che quella voce critica dentro di noi che ci ripete che stiamo sbagliando ci aiuti a fare meglio. Ma il giudizio, anche se fatto con le più buone intenzioni, non sprona a cambiare, anzi. Il peso delle aspettative degli altri e la paura di non riuscire a soddisfarle non fa altro che alimentare la pressione e bloccarci esattamente dove siamo; porta ad adagiarci nell’affermazione “Sì, ma io sono fatto così!”, come se ormai non ci fosse più nulla da fare.
E infatti se ci pensiamo bene, qual è il luogo in cui nell’immaginario comune si giudica? È il tribunale, dove il giudice emette una sentenza. Nella nostra mente è come se ci fosse un giudice interno, che però di solito non riconosce una responsabilità, ma attribuisce una colpa. Non ci sono in questo caso azioni che si possono fare per modificare le cose, ormai quello che è fatto è fatto e se ne pagano le conseguenze con una punizione dolorosa.

Difesa o attacco? Stesso spreco di energia

Cosa farebbe chiunque nel sentirsi un dito puntato contro?
Le reazioni più comuni di solito sono due: la difesa e l’attacco.
Se pensiamo, per esempio, a quando un genitore è ipercritico con suo figlio, quello che potrebbe succedere è che quest’ultimo reagisca con eccessiva aggressività o che eviti di prendersi responsabilità e di diventare autonomo in determinate situazioni.
Nel caso, invece, di un forte auto giudizio si possono innescare diversi sistemi di punizione verso se stessi: alimentazione sregolata, poca voglia di fare, schemi relazionali non sani, etc…
Sia con la difesa che con l’attacco non si vince mai. Si spreca solo energia! In entrambe le reazioni, infatti, quello che si ottiene il più delle volte è l’esatto contrario di ciò che si voleva raggiungere o evitare. Se la paura era di essere rifiutati o abbandonati, nel contrasto, da entrambe le parti, si ottiene comunque una separazione. Se lo scopo era cambiare un’azione o un’abitudine o andare verso un nuovo obiettivo, quello che invece succede è che si rimane sempre al punto di partenza. Perché un cambiamento implica un movimento verso qualcosa di nuovo, delle azioni diverse da quelle conosciute e per compiere queste azioni serve molta energia, che invece viene inevitabilmente sprecata se si è impegnati a difendersi o contrattaccare.

L’accettazione è l’unica via al cambiamento

“Solo quello che si accetta può essere cambiato”, ha detto Rogers.
Nell’accettazione c’è solo amore e non c’è giudizio.
E con accettazione non intendo rassegnazione, ma accoglienza. Accettare non significa pensare che non ci sia più nulla da fare, ma significa semplicemente prendere atto della situazione, guardarla com’è nella realtà e non attraverso una nostra sola proiezione. In questo modo ci si apre alla possibilità di poter fare delle azioni diverse da quelle che si sono fatte finora. Si va oltre a qualsiasi “etichetta”.
Significa mettersi nella posizione di voler conoscere e capire la situazione per quello che davvero è, nella sua complessità.
Significa, per fare un esempio pratico, non decidere a priori che tuo figlio è lento, piuttosto che svogliato, poco responsabile e potrebbe fare di più etc…, ma ascoltarlo, fargli domande con l’atteggiamento di chi davvero vuole capire e sapere il suo punto di vista. Proprio nell’accettare il figlio per quello che è, i genitori gli restituiscono il potere di fare qualcosa di diverso, di poter ottenere risultati migliori, di avere un atteggiamento differente. Perchè un figlio che si sente amato e accolto sarà libero di sperimentare, sbagliare e ricominciare.
Allo stesso modo, è nell’accettazione di noi stessi che ci possiamo sentire motivati e in grado fare o non fare qualcosa.

Il cambiamento parte da te

Ma cosa ancora più importante da sapere è che, se si vuole ottenere un cambiamento efficace che sia di una situazione, o di una relazione o di un atteggiamento, è necessario essere disponibili a cambiare in prima persona. Per esempio, nessun figlio può davvero attuare un cambiamento se il contesto in cui vive e le persone che lo circondano non sono disposti a modificarsi e riadattarsi di conseguenza. In altri termini, ogni elemento che si trasforma nel sistema implica un cambiamento anche nel sistema stesso. Come in un puzzle i pezzi sono tra loro collegati, se cambio la forma a uno di loro, quello a fianco dovrà a sua volta rendere diversa la sua forma per poter rimanere unito.
Ma questo ragionamento vale anche al contrario: se si vuole che qualcosa cambi, questo cambiamento deve cominciare da se stessi, perchè è modificando la propria “forma” che si permette anche agli altri di modificarsi. Inoltre è solo su noi stessi che abbiamo potere e responsabilità totale.
Per questo motivo, ciò che apprezzo di più nel seminario Gioco della Trasformazione è proprio il mirare a restituire alla persona il potere di cambiare, la fiducia nelle proprie abilità e risorse e l’accettazione di sé così come si è, con i propri schemi, i propri limiti e le proprie paure. Per questo apprezzo sempre di più il mio ruolo di “facilitatrice” che mi mette nella posizione di facilitare un percorso, di guidarlo ma lasciando il piacere della scoperta e la libertà di azione ai partecipanti. Durante il seminario i partecipanti hanno la possibilità di mettere a fuoco le loro risorse e superare i propri blocchi, senza doverli nascondere. Possono sperimentare l’accettazione e l’interazione in un piccolo gruppo e iniziare così a raggiungere concretamente un obiettivo e rendere reale un cambiamento.
Perchè sono convinta che il cambiamento non può che partire da noi stessi, perché quando smettiamo di giudicarci e ci mettiamo in gioco ci apriamo al mondo delle possibilità. Possiamo riappropriarci della nostra responsabilità e della nostra libertà di essere. E allora, e solo allora, possiamo cambiare, perchè a quel punto il cambiamento non è più un evento di cui avere paura e che ci “capita” inaspettato e implacabile, ma fa parte di noi e diventa l’espressione stessa della nostra libertà!

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